giovedì 6 marzo 2014

Geopolitica e risorse energetiche dell'America del Nord



Nell’immaginario europeo è difficile immaginare il Canada come un paese brown, cioè che fa un uso incontrollato delle risorse naturali e dei combustibili fossili (il Brasile è uno di questi).

Secondo la Fao, la deforestazione annuale in Canada negli ultimi 20 anni è stata intorno allo 0%; le statistiche dell’Oecd sostengono che i canadesi usufruiscono di una qualità dell’aria e dell’acqua molto più elevata rispetto al resto del mondo.

Il problema è che questa attitudine ambientalista è poco più che un’apparenza.La qualità dell’ambiente canadese è il risultato dell’impatto limitato di una popolazione che, pur essendo metà di quella italiana, vive su di un paese 33 volte più grande.

La politica ambientale canadese è tutt’altro che coscienziosa, essendo piuttosto una delle più pericolose e aggressive nello sfruttamento delle risorse naturali, facilmente paragonabile a quella di Cina o Indonesia.

Basterà fare riferimento a qualche indicatore: il Canada ha un’intensità energetica del 27% superiore a quella della Cina, più del doppio delle emissioni pro capite e il 15% in più degli Stati Uniti. Pur avendo meno dello 0.04% della popolazione mondiale, il Canada è responsabile per quasi il 2% delle emissioni globali.

L’uscita dal protocollo di Kyoto nel 2011 e i livelli di emissioni sono gli elementi meglio conosciuti e più lampanti della politica ambientale canadese, ma certo non gli unici e forse neppure i più gravi. Nella British Columbia, ad esempio, è ancora legale e diffuso l’abbattimento delle cosiddette old-growth forests, costituite da alberi dai 100 ai 700 anni e spesso alti oltre i 70 metri. Questa pratica non è permessa nemmeno in Congo o in Liberia. Ottawa sta inoltre valutando l’opzione di riaprire lo sfruttamento dei banchi di merluzzo, gli stessi che, dopo aver reso per decenni quasi un milione di tonnellate all’anno, furono oggetto di una pesca così intensiva da essere praticamente azzerati nel 1992. Il Canada è tuttora nella top 10 dei paesi che forniscono più sussidi alla pesca nel mondo.

Robert Powell, esperto per il Wwf, sostiene che Ottawa stia rischiando di più nell’industria dei combustibili fossili. Se il cosiddetto fracking è al centro di discussioni e proteste solo da poco tempo negli Stati Uniti e in Europa, in Canada loshale gas è stato ampiamente sfruttato in Alberta sin dagli anni Settanta. Il paese affronta da oltre 20 anni il problema dell’inquinamento di laghi e fiumi per via degli agenti chimici che, a seguito del fracking, vengono immessi nel suolo.

Il progetto dell’oleodotto Enbridge, inoltre, dovrebbe percorrere oltre 1.100 chilometri in un territorio che conta oltre mille corsi d’acqua fino al Great Bear Sea, uno degli ecosistemi più fragili del Canada. Il solo costo di recupero in caso di una fuoriuscita di petrolio di medio-grande livello è stato stimato da ricercatori della University of British Columbia intorno ai 9-10 miliardi di dollari. Il costo per costruire l’oleodotto si aggira intorno ai 6 miliardi. Un rischio significativo, considerando che la compagnia che dovrebbe costruire e gestire l’oleodotto, la Enbridge, detiene il record di oltre 600 fuoriuscite negli ultimi 20 anni.

Il tentativo dell’Unione Europea di tassare la più grande e inquinante risorsa energetica canadese, ossia il petrolio prodotto dalle sabbie catramose (tar sands), va avanti dal 2007. Questa proposta è stata supportata da 21 premi Nobel e contrastata invece da una feroce attività di lobbying da parte canadese, con la partecipazione del ministro dell'Ambiente in persona. Davon Page, direttore esecutivo di Ecojustice, e David Coon, uno dei leader del Green party canadese, hanno provato a spiegare all'autore di questo articolo i motivi dietro a scelte ambientali tanto aggressive.

Da una parte, gli interessi in gioco. Il Canada è il 2° paese al mondo per risorse di uranio, 4° per produzione di gas, 6° per produzione di petrolio e nel 2012 le sue riserve erano le terze al mondo dopo Arabia Saudita e Venezuela. Di queste, quasi il 100% viene prodotto dalle tar sands e interamente esportato negli Stati Uniti, così come il 98% del totale delle esportazioni energetiche canadesi.

Anche la politica canadese ha fatto la sua parte, sostituendo nel 2012 il pacchetto legislativo ambientale, il cosiddetto Canadian environmental assessment act, con una serie di regolamenti il cui obiettivo era quello di mettere lo sfruttamento delle risorse ambientali al centro della crescita economica. C’è poco da stupirsi quindi se una delle prime conseguenze della nuova legislazione sono state le nuove concessioni per trivellazioni esplorative nell'Artico.

Il tocco finale l'ha dato la politica internazionale. Fu proprio il fallimento degli accordi di Copenaghen ad aprire le porte all’uscita del Canada dal protocollo di Kyoto, e allo stesso modo potrebbe essere stato un cambiamento di rotta nella politica dell’Unione Europea ad aver incentivato lo sfruttamento delle tar sands. In un mondo così affamato di energia da vedere crescere la domanda globale del 50% nei prossimi 20 anni, sembra difficile trovare gli incentivi in grado di indirizzare il Canada verso l'adozione di una politica ambientale più rigorosa. D’altra parte, anche l’approccio corrente non è senza costi.

Il cambiamento climatico potrebbe costare annualmente al Canada 5 miliardi di dollari a partire dal 2020, fino a raggiungere il picco di 41 miliardi nel 2040. Una fuoriuscita in regioni come il mare di Beaufort o il Great Bear Sea potrebbe raggiungere con facilità un livello dei danni pari a quello del disastro ambientale del Golfo del Messico nel 2010, per il cui risarcimento British petroleum potrebbe dover pagare oltre 40 miliardi di dollari.

Ragionando su un bilancio costi-benefici della propria politica ambientale, Ottawa si deve preparare ad affrontare delle responsabilità anche a livello globale. Direttive europee o accordi come il post-Kyoto potrebbero smuovere la politica ambientale canadese dall’impasse tra politica brown del governo federale e le potenzialità greendel paese.

Potrebbe essere l’occasione per dimostrare che le decisioni di politica ambientaledi un paese non sono e non devono essere tanto una prerogativa nazionale, quanto il frutto di una discussione che coinvolga la comunità internazionale.

[Carta di Laura Canali tratta da Limes 2/12 "Quel che resta della terra"; per ingrandire, scarica il numero su iPad]

























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