giovedì 15 maggio 2014

Per sette manieri silvani - Capitolo I - Gli illustri antenati




Prima di finire a testa in giù nelle Malebolge dell'Inferno dantesco, papa Niccolo III Orsini ebbe il tempo di sistemare due suoi nipoti nelle Romagne, rivendicate come feudo pontificio.
Bertoldo divenne Conte di Romagna e Bernando ottenne un feudo in apparenza minore, ma strategicamente centrale, e cioè il castello di Casa Murata, all'incrocio tra la cervese di Forlì e il dismano di Ravenna.
Chi controllava Casa Murata, controllava di fatto l'accesso alle saline di Cervia, e chi controllava l'accesso a quelle saline, controllava tutta la Romagna, perché come dicevano i papi: Roma plus habet de parva Cerviola quam de tota Romandiola.



A quei tempi Cervia era solo un'isolotto nel mezzo delle saline, popolate da fenicotteri ed aironi, che ancora oggi si possono osservare in quel luogo che ha mantenuto intatta la sua magia millenaria.
Bernardo Orsini, conte di Casa Murata, fu di fatto il fondatore della mia stirpe.
O meglio, della stirpe il cui nome si estinse con la morte della mia fantastica nonna materna.



Tra l'insediamento di Bernardo Orsini e la morte di mia nonna, ci sono circa ottocento anni e quaranta generazioni. 
Per altrettanti anni e generazioni il feudo resse e al suo centro il maniero principale, il castello di Casa Murata.
Non furono necessariamente anni gloriosi.
<<Noi siamo la rea progenie degli oppressor discesa>> amava ripetere la nonna, ed aveva ragione a citare il coro di Ermengarda nell'Adelchi <<cui fu prodezza il numero, cui fu ragion l'offesa e dritto il sangue e gloria il non aver pietà>>
E quasi a consolarmi del fatto che, quando lei ormai era verso la fine, anche il feudo si stava disintegrando e la famiglia navigava in pessime acque economiche, la nonna concludeva la citazione con la solenne certezza che quello che poteva apparire un castigo, forse era una forma di misericordia:
<<Te collocò la provvida sventura infra gli oppressi>> lo diceva più che altro a se stessa, ma mi rivolgeva comunque occhiate significative: <<muori compianta e placida, scendi a dormir con essi, alle incolpate ceneri, nessuno insulterà>>
Lo diceva osservando i ritratti degli illustri antenati, partendo da sua madre, che era una Balducci de' Calboli.



Negli ultimi trecento anni la famiglia Orsini si era incrociata con le altre famiglie nobili della zona, in una sorta di endogamia che assomigliava quasi ad una forma di esperimento eugenetico, per mantenere quella che Isabella di Castiglia avrebbe definito <<la limpieza de sangre>>.
Le uniche eccezioni, nell'ambito di quel Serpente Rosso e della Nobiltà Nera di cui la famiglia Orsini faceva parte, così come i suoi rami principali, erano accadute quando, in occasione di rivolgimenti sociali e politico, oppure di tracolli economici o di tare ereditarie, si era sentito il bisogno di inserire nuovo sangue in quella linea di discendenza.
Ed era sempre una rea progenie di oppressori, di privilegiati e di gente baciata dalla fortuna, che trovava la sua consacrazione imparentandosi con quella parte di Serpente Rosso e di aristocrazia nera che faceva risalire le sue origini su fino alla famiglia patrizia di Ursinus Maximus. La gens Maxima a sua volta reclamava l'eredità di stirpi ancora più antiche e prestigiose, su su fino alla nobilitas senatoriale dell'antica Roma.





Ma noi eravamo pur sempre un ramo cadetto, minore, di cui si erano quasi perse le tracce e le memorie.
E le ultime generazioni erano così decadute ed estenuate, come i Floressas des Esseintes del romanzo di Huysmans, che per loro potevano valere i versi di Rilke, che nella mia mente suonano così tradotti:

Per tre rami fiorì la mia stirpe,
per sette manieri silvani.
Ma fu presto stanca dell'antico blasone.
Piegò sotto il peso degli anni.
L'antico lignaggio degli avi
è tutto ciò ch'io le acquisto ed apporto:
sono ormai senza patria nel mondo.






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