martedì 3 giugno 2014

Mappa geopolitica del Medio Oriente dal primo dopoguerra ad oggi

La terra dei conflitti incrociati. Il massacro di Siria nella guerra civile regionaleIl collasso dell’ordine ottomano e la carente legittimazione degli Stati nazionali alimentano una rete di conflitti permanenti tra Mediterraneo e Golfo Persico. Le sub-regioni informali, soggetto e oggetto delle partite in corso. Molte identità, nessuna identità?di Lorenzo Trombetta

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, con la caduta dell'Impero Ottomano, il Medio Oriente fu suddiviso in vari stati, ognuno nella sfera di influenza delle potenze vincitrici, nel rispetto degli accordi di Sykers-Picot. In particolare la Francia, che ebbe il mandato sulla Siria e il Libano, e la Gran Bretagna, che ebbe il mandato sulla Giordania, la Palestina e la Mesopotamia
La Siria, il Libano e l'Iraq si presentarono fin dall'inizio come un coacervo di diverse culture e religioni e questo fu all'origine delle numerose guerre che da oltre un secolo hanno caratterizzato l'instabilità mediorientale (insieme al conflitto israelo-palestinese).

“Complotto” o “rivoluzione”, i due linguaggi della SiriaIl conflitto a Damasco passa anche attraverso il lessico usato dalle fazioni antagoniste per identificare chi è altro da sé. La scelta dei vocaboli svela le manipolazioni mediatiche e gli stereotipi che alimentano immaginari collettivi antitetici.di Elisabetta Di FrancescaChi sono gli islamisti sirianiL’universo ampio e variegato dei movimenti islamici in Siria: conservatori e progressisti, laici e reazionari. La loro forza scaturisce dalle umiliazioni coloniali del passato e da un presente vissuto tra clandestinità e persecuzioni. La rivincita è vicina.di Muhammad al-’Ammar

Attualmente in Siria è in atto una guerra civile tra i fedeli del presidente Assad e i ribelli.

In Siria, Asad riparte da Homs e convive con al QaidaDopo oltre 2 anni di assedio il regime riconquista quel che resta di   Homs e si rafforza in vista delle elezioni presidenziali (farsa) di   giugno. Damasco stringe rapporti con i qaidisti dell’Isis. Russia e Iran   stravincono, l’Occidente brancola nel buio. di Lorenzo TrombettaProve di Asadistan con l’aiuto di Hezbollah

Il Nobel all’Opac, la pace, e la seconda guerra di SiriaL’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che ha vinto il   premio quest’anno, non porterà la pace a Damasco ma scongiura, con la   sua stessa presenza, l’attacco americano (che neanche Obama vuole).di Niccolò LocatelliLa risoluzione Onu sulla Siria (testo integrale della bozza)

La guerra civile siriana ha visto una presa di posizione netta delle nazioni confinanti e delle potenze internazionali.

Il patto inattuabile ma decisivo sulla SiriaL’accordo di Ginevra tra Kerry e Lavrov non serve a distruggere le armi chimiche ma a limitare gli effetti regionali e mondiali della guerra siriana. Vince - ai punti - Mosca, perdono in primis i ribelli “ufficiali”.di Lucio CaraccioloRussia e Cina, un veto inevitabileCome smantellare le armi chimiche di Asad

I principali alleati di Assad sono la Russia, l'Iran e l'Iraq, mentre gli altri paesi sono contrari al presidente siriano, così come gli Stati Uniti. L'Unione Europea ha svolto un ruolo di mediazione che ha impedito l'intervento militare di potenze esterne.

L’attentato contro l’Iran e le lezioni di BeirutPer la prima volta un duplice attacco suicida viene compiuto contro l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Teheran comincia a pagare caro il prezzo del suo coinvolgimento nella guerra siriana.di Lorenzo TrombettaCon la Siria in testa, la Russia torna nel MediterraneoMosca schiera una dozzina di navi da guerra nel Mare Nostrum, che oltre vent’anni dopo la fine dell’Urss torna rilevante. L’appoggio anche militare al regime di Asad è parte di questa strategia.di Mauro De BonisCircassi, il Caucaso in Siria

Si tratta quindi di un conflitto interno allo stesso mondo islamico, che vede una rivalità tra i due stati che se ne contendono la leadership e cioè l'Arabia Saudita e l'Iran.

Jihadisti, sciiti e Iran: l’Arabia Saudita e il nemicoRiyad inquadra i suoi problemi interni e orienta la sua politica estera alla luce del conflitto con l’asse Damasco-Teheran. Una strategia che inizia a creare malcontento popolare. di Liisa LiimatainenNel solco di Roncalli e Wojtyla:l’appello di Francesco sulla SiriaCome Giovanni XXIII nel 1962 e Giovanni Paolo II nel 2003, papa Bergoglio invoca la pace e mette in guardia dalle conseguenze imprevedibili della guerra. Nella prima crisi internazionale del suo pontificato, scelto un approccio collegiale.di Piero Schiavazzi



Ritenere che in Libia il problema dell’ingovernabilità e della sicurezza possa essere semplificato attraverso la formula dello scontro tra i “cattivi islamisti” da una parte e i “buoni laici” dall’altra è un grossolano errore.

Ancora peggio, in conseguenza della banalizzazione di cui sopra, è considerare che i cattivi islamisti della Fratellanza Musulmana siano lo spin off di al Qaida in Libia, laddove i miliziani del generale Haftar - i "buoni laici" - siano arrivati per liberare il paese e la regione dalla piaga del terrorismo.

A quasi 13 anni dal fatidico 11 settembre 2001 che cambiò il mondo e la fisionomia del Medio Oriente, l’Occidente non si può più permettere di considerare ciò che è al di fuori della propria capacità di comprensione come un generico tutt’uno di radicalismo e terrorismo. Deve al contrario prendere coraggio e affrontare i nodi venuti al pettine delle relazioni con il Medio Oriente, facendo una seria riflessione su chi siano oggi gli amici e i nemici nella regione. Il caso della Libia offre un ottimo spunto per iniziare.

In Libia si ha a che fare con 2 golpe consecutivi, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Il 1° “golpe” sarebbe quello attuato il 5 maggio dalla Fratellanza Musulmana e dai suoi alleati islamisti nel parlamento, attraverso l’elezione Ahmed Maiteeq alla carica di premier, senza i necessari voti della maggioranza del Congresso, a danno del “moderato” Omar al Hassi. Il 2° è quello del 18 maggio, quando l’ex generale Haftar avrebbe liberato Tripoli dagli islamisti imponendo il volere delle forze armate e delle componenti laiche della politica libica.

Nessuno dei due episodi è successo come è stato descritto sopra, sebbene così sia stato riportato da buona parte della stampa.

Innanzitutto, né Maiteeq né al Hassi sono organici alla Fratellanza Musulmana, sebbene entrambi siano stati sostenuti da questa. La contestazione seguita all’elezione di Maiteeq - dovuta al fatto che non sarebbero stati raggiunti i 120 voti del Consiglio necessari per la sua proclamazione - è stata in primo luogo alimentata dalle forze islamiste, che fino a pochi giorni prima avevano ritenuto di individuare un punto d’incontro nella candidatura di al Hassi.

Stante il caos generale, non si è nemmeno chiarito se il conteggio dei voti abbia presentato errori o meno. Resta così pendente il giudizio sulla correttezza della tornata elettorale che ha consacrato Maiteeq primo ministro.

Men che meno quella di Haftar può essere considerata come la cacciata degli islamici fondamentalisti a opera dei laici promotori della democrazia. L’ex generale rappresenta poco più che se stesso, essendo alla testa di una milizia che di fatto non è ai suoi ordini. Soprattutto, non esiste nulla che in Libia oggi venga presentato come “laico”. La distinzione veramente importante è quella tra “islamista” e “non islamista”. Il problema è che ci ostiniamo a leggere le notizie che provengono dalla regione attraverso una lente interpretativa non solo errata, ma anche vecchia di quasi 2 decenni.

Khalifa Haftar è un ex generale dell’esercito di Gheddafi. Classe 1949, di lui si sentì parlare per la prima volta nel 1987, quando venne catturato dalle Forze armate ciadiane durante un combattimento alWadi Doum. Gheddafi l’aveva mandato già da 2 anni a combattere una guerra mai dichiarata contro il Ciad, che si protraeva per inerzia senza che nessuno potesse davvero vincere.

Quando cadde prigioniero, Haftar venne prontamente scaricato dal Colonnello, finendo in un limbo da cui riuscì a emergere passando dalla parte degli oppositori del regime e proponendo la creazione di una forza armata da abbinare all’azione del Fronte nazionale per la salvezza della Libia.

Raccogliendo attorno a sé alcuni militari defezionisti o prigionieri delle forze ciadiane, iniziò a operare sul fronte meridionale della Libia compiendo sporadiche azioni contro le forze di Tripoli, senza tuttavia conseguire risultati significativi sul campo di battaglia. Gheddafi aveva nel frattempo sapientemente fatto circolare informazioni sulla reputazione di Haftar, accusandolo di sevizie e torture sui prigionieri ciadiani prima e su quelli libici poi. Informazioni con ogni probabilità non corrispondenti al vero, in virtù anche della limitata azione bellica condotta, ma in grado in ogni caso di comprometterne la reputazione.

Haftar venne infatti nuovamente scaricato, questa volta dal presidente ciadiano Idriss Déby, all’indomani dell’uscita di scena di Hissène Habrè nel 1990, finendo costretto a un nuovo peregrinare nella regione, tra la Repubblica Centrafricana e lo Zaire. Da qui, con l’aiuto degli Stati Uniti, emigrò in Virginia, dove si ritirerà di fatto a vita privata, conducendo un moderato antagonismo al regime libico, essenzialmente fatto di proclami e insinuazioni.

Nel 2011, tuttavia, con l’inizio delle rivolte a Bengasi, Haftar riapparve all’improvviso in Cirenaica e si propose ai vertici delConsiglio nazionale transitorio come comandante in capo delle costituende forze armate del Cnt. Gli venne preferito il generale Abdul Fatah Younis, già comandante delle forze speciali e figura alquanto stimata tra i ribelli, cui si affiancò Omar Hariri come vice.Gli attacchi verbali anche violenti contro Younis portarono addirittura a includere Haftar nella lista dei sospettati per il suo omicidio, avvenuto a Bengasi nel luglio del 2011.

Nell’impossibilità di acquisire un ruolo politico di rilevo, Haftar ha vissuto in questi tre anni perlopiù a Bengasi cercando di coltivare un piccolo circolo di sostenitori di estrazione militare, progressivamente armatosi e trasformatosi in una della tante milizie che si spartiscono il controllo della Cirenaica. Da questa nuova - assai debole - posizione, Haftar lo scorso 14 febbraio ha annunciato di essere alla testa di una forza militare pronta a riprendere il controllo della situazione, scacciare il terrorismo islamico e ripristinare la legalità e la democrazia. Al proclama non ha fatto seguito alcuna azione sul terreno, tanto che gli stessi libici ironizzano definendolo il "golpe di san Valentino".

Intorno alla metà di maggio, invece, Haftar e i suoi sostenitori hanno ingaggiato un violento scontro con altre milizie di Bengasi - islamiste e non - provocando un centinaio di morti e dando avvio al tentativo del generale d'imporsi come leader della rivolta. Il 18 maggio una delle milizie di Zintan (la Qaqaa) ha dichiarato il proprio sostegno all’ex generale, muovendo verso Tripoli in direzione del Congresso, occupandolo e provocando la sospensione della seduta.

Le milizie entrate a Tripoli, tuttavia, non fanno parte di quelle che Haftar ha armato ed equipaggiato a Bengasi, che da lì non si sono mai mosse; si tratta invece delle milizie di Zintan (tra le quali i resti della 32° brigata delle forze speciali, un tempo al comando di Khamis Gheddafi), che hanno il loro riferimento politico in Mahmud Jibril, leader delle forze non islamiste in parlamento. Questi, in un temporaneo matrimonio di interessi con Haftar, ha colto l’opportunità di ritornare in campo nell’intento di porsi nuovamente alla guida di un esecutivo non islamista, senza riconoscere ad Haftar la supremazia politica della manovra contro le forze islamiste.

L’azione condotta a Tripoli, quindi, non è stata una vera e propria battaglia, ma semplicemente un esercizio muscolare delle milizie di Zintan che, muovendosi dalla loro zona di competenza in prossimità dell’aeroporto, si sono spinte nel centro della città, hanno provocato la fuga del Consiglio, per poi ritirarsi nuovamente sulle posizioni di partenza. Una mossa rapida e non definitivamente traumatica nella gestione degli equilibri di forza della capitale, condotta in modo da non provocare l’intervento a Tripoli delle milizie di Misurata, notoriamente più vicine alle forze politiche islamiste, che avrebbe provocato un bagno di sangue nelle vie della capitale.

Il generale Haftar non ha un proprio radicamento politico in Libia, soprattutto in conseguenza del lungo esilio durato quasi un quarto di secolo, che lo ha estromesso dalle dinamiche sociali di un paese isolato dall’esterno e refrattario sino al 2011 a qualsiasi tipo di influenza esogena. Haftar ha quindi costruito il suo ruolo grazie al sostegno di alcuni finanziatori del Golfo, che vedono in lui uno dei molteplici, possibili baluardi alla proliferazione degli interessi della Fratellanza Musulmana nella regione.

Ed è in questo ambito che viene a delimitarsi la natura dello scontro in atto in Libia – al pari di altri paesi del Medio Oriente. Non si tratta di uno scontro tra forze laico-democratiche da una parte e forze confessionali,radicali e terroristiche dall’altra, ma di una lotta senza quartiere nell’intera regione tra l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti da un lato e la Fratellanza Musulmana sul versante opposto. Quest’ultima con il sostegno più o meno palese del Qatar.

Non è in ballo né la democrazia, né l’interesse allo sviluppo e alla ricostruzione della Libia, ma solo il controllo regionale del predominio della fede islamica. Quest’ultima è sotto attacco - nell’ottica wahhabita - sia dall’eresia sciita sia dal pluralismo politico accettato dalla Fratellanza Musulmana. Si tratta di due modelli che rappresentano l’antitesi della visione dogmatica e ultra-conservatrice del wahhabismo saudita, risultando di conseguenza incompatibili col sistema politico che su questa dottrina poggia la propria legittimazione a Riyadh.

Dal 2011 a oggi tale scontro intra-islamico ha già insanguinato il Medio Oriente, dalla Siria al Bahrein, dallo Yemen all’Egitto: la Libia ela Tunisia sono i restanti due obiettivi da colpire per eliminare gli ultimi baluardi della Fratellanza Musulmana. Tali attacchi avvengono, chiaramente, col supporto del "laicissimo regime democratico" dei militari del Cairo, e di tutti coloro che, a distanza di oltre 10 anni dai disastri politici e militari iracheno e afghano, ancora vedono nell’interventismo militare contro la minaccia islamica la soluzione ai problemi della regione e del mondo.

Haftar rappresenta in Libia esattamente questo. L’illusione, a uso e consumo di un Occidente incapace di comprendere l’evoluzione della società mediorientale, di aver individuato un paladino della democrazia e della legalità, ma soprattutto un laico, nemico dei famigerati terroristi che insidiano il potere a Tripoli. Dalla sua parte la giustizia e la democrazia, dall’altra hic sunt leones.

Allo stato attuale è difficile formulare soluzioni che possano risolvere la pericolosa impasse in cui è piombato il paese all’indomani dell’ultima crisi politica. Come sempre, una soluzione interna sarebbe preferibile a qualsiasi ipotesi di ingerenza esterna. Il problema della Libia odierna, tuttavia, è quello della sicurezza e dell’arbitrarietà derivante dalla proliferazione di milizie e potentati che si spartiscono il territorio, senza alcun interesse a cedere posizioni o trovare formule di raccordo unitario in funzione dell’interesse nazionale.

Sarebbe di fondamentale importanza che la comunità internazionale agisse da mediatore. Essa dovrebbe cioè definire un tavolo negoziale attraverso il quale giungere a un accordo di unità nazionale, favorendo la costituzione di un governo e una road mappolitica condivisa da tutte le forze.

La Libia - dopo la dominazione coloniale, un breve periodo monarchico e oltre 40 anni di dittatura personale di Gheddafi - non deve essere ricostruita, ma costruita. Non esiste, di fatto, un’identità nazionale forte e capace di prevalere sui localismi e i personalismi; deve essere rifuggita in tal solco anche l’idea di una spartizione del territorio in zone d'influenza egiziane e algerine.

Questo è il compito che dovrebbe assolvere la comunità internazionale, dopo aver abbondantemente contribuito al collasso del paese nel 2011 alimentando spinte di disgregazione esterne al contesto sociale nazionale, di cui oggi i libici pagano il doloroso frutto.

Per approfondire: (Contro)rivoluzioni in corso

Nicola Pedde è il Direttore di IGS – Institute for Global Studies.
Karim Mezran è Senior Fellow al Rafik Hariri Center for the Middle East dell’Atlantic Council di Washington DC.

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