venerdì 20 gennaio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 4. Noblesse oblige



Nel 1936, all'età di 21 anni, la bellissima contessina Diana Orsini Balducci di Casemurate era ancora inspiegabilmente nubile.
Era affascinante, raffinata, intelligente, istruita secondo un'educazione di prim'ordine, con tanto di diploma di liceo classico, lezioni di francese, di pianoforte, di danza, di equitazione, di alta sartoria, di giardinaggio e altre simili attività di elevata inutilità sociale.
Tre anni prima aveva ufficialmente adempiuto al primo grande rito iniziatico delle ragazze "di buona famiglia", ossia il Debutto in Società.
L'occasione era stata un ballo presso la residenza di campagna dei marchesi Spreti di Serachieda, insigne dinastia ravennate che vantava discendenze persino dagli Esarchi bizantini.
Qualche secolo prima, una Lucrezia Spreti aveva anche sposato un conte Orsini, per cui le due famiglie risultavano imparentate, seppure alla lontana.
Il prestigio di Villa Spreti, dotata persino di un'alta torre merlata risalente al XV secolo e detta "Torre di Casemurate", era tale da far sì che la strada di fronte a quel notevole maniero, sorto vicino alla chiesa parrocchiale, avesse preso il nome di Via Spreti, e così è chiamata ancor oggi.

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Già a quei tempi Villa Spreti era tenuta in condizioni decisamente migliori di Villa Orsini.
Inoltre, per dirla tutta, mentre Villa Spreti era una residenza di villeggiatura, la Villa Orsini era l'ultima residenza rimasta alla famiglia dei Conti di Casemurate.
E per giunta era gravata da imbarazzanti ipoteche dovute ad una serie di sfortunati investimenti e ad un tenore di vita superiore alle rimanenti liquidità della famiglia.
L'unica speranza per salvare la dinastia dalla rovina consisteva nel combinare matrimoni adeguati per i figli.
Il Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate e sua moglie Emilia Paolucci de Calboli avevano avuto sei figli.
Ludovico (1913-1916) era morto precocemente di meningite.
Diana nata nel 1915, era, come si è detto, talmente bella, elegante e di classe da poter aspirare a un buon partito, almeno prima che i suoi corteggiatori si rendessero conto che portava in dote soltanto un cognome glorioso e una marea di debiti.
Annalisa (1917- 1919) era morta precocemente di febbre spagnola.
Ginevra, nata nel 1921, era pallida, magra, rossa di capelli, lentigginosa, ma di carattere gentile.
Isabella, nata nel 1924, prometteva di diventare persino più attraente di Diana.
Augusto, nato nel 1926 era un grande appassionato di motociclismo e automobilismo.
Dal momento che Diana era l'unica figlia in età da marito, tutte le trattative segrete per i matrimoni combinati erano concentrati su di lei.
L'unica soluzione per evitare la catastrofe era fare in modo di imparentarsi, tramite matrimonio dei figli e delle figlie, con qualche famiglia ricca.
Purtroppo, considerando l'enormità dei debiti che gravavano sulla famiglia dei Conti di Casemurate, e il rischio probabile di una completa rovina, seguita dal disonore sociale, spaventavano anche i più ricchi borghesi della zona.
Rimaneva comunque un consistente numero di corteggiatori che il Conte sprezzantemente giudicava di rango inferiore e "squattrinati".
In verità non erano proprio tutti squattrinati: uno i quattrini ce li aveva, ma le origini agresti della sua famiglia erano ritenute troppo recenti.
Come avevamo anticipato, costui era il ruspante Ettore Ricci, figlio dell'ancor più ruspante Giorgio, primo tra i creditori del Conte.
Certo, agli occhi di quest'ultimo i Ricci erano degli zotici, ma quest'argomentazione passava in secondo piano di fronte alla considerazione che proprio quella famiglia si trovava in possesso delle ipoteche gravanti su Villa Orsini e sui terreni adiacenti, gli ultimi rimasugli di quello che un tempo era stato il Feudo di Casemurate.
Ogni volta che il Conte Achille si trovava a meditare su quell'argomento, non poteva fare a meno di chiedersi com'era stato possibile per la sua stirpe cadere così in basso.
Investimenti sbagliati, spese eccessive, vizi inconfessabili e altre dissipatezze avevano contribuito in maniera inesorabile a quel declino, che ormai si stava trasformando in un crollo verticale.
In qualità di creditori ipotecari, i Ricci stringevano lentamente, ma inesorabilmente il cappio intorno al collo lungo e pallido del Conte Orsini, il quale tentava di tener buoni quei "bifolchi" ricevendo spesso l'unica componente presentabile di quel clan, ossia la Maestra Clara, moglie del capofamiglia e, come già si era accennato, autrice delle Cronache casemuratensi.
L'apporto della maestra Clara aveva contribuito a dirozzare almeno un po' la famiglia Ricci, tanto che
 suo marito Giorgio si atteggiava ormai a riverito possidente.
Tra i loro figli, Ettore era di sicuro il più intraprendente, e aveva fama di instancabile lavoratore. In lui l'indole bizzarra, focosa e irascibile dei Ricci, era compensata da una simpatia derivante da un talento istrionico e dalla capacità di avere sempre la battuta pronta.
Fisicamente non era un gran che: basso, irsuto, dai lineamenti non certo aristocratici, contrastava in maniera evidente con la bellezza di Diana Orsini.
Ma, come diceva Zsa Zsa Gabor: "Un uomo ricco è sempre bello".
Peccato che Diana Orsini non la pensasse affatto allo stesso modo.
Non si trattava solo di un capriccio: la contessina era consapevole che la personalità di Ettore Ricci e la propria erano agli antipodi.
Naturalmente nessuno si era minimamente preoccupato di informare Diana del fatto che, nonostante la sua opposizione, le trattative per un eventuale matrimonio con Ettore stavano proseguendo in maniera febbrile e concitata.
Le uniche allusioni a tal proposito provenivano dall'ultima domestica rimasta a Villa Orsini, una certa Ida Braghiri, moglie del fattore degli Orsini, che era già segretamente a libro paga della famiglia Ricci.
La signora Ida non faceva altro che tessere le lodi di Ettore Ricci.
Diana, che non era una stupida, capì quello che c'era da capire.
<<Non lo sposerò mai!>> dichiarò apertamente ai genitori <<Non potete costringermi>>
La Contessa Emilia assunse un'espressione affranta: <<Finiremo tutti sul lastrico>>
Diana azzardò una battuta: <<E lavorare no?>>
Questa volta fu il Conte in persona a intervenire: <<Piuttosto mi sparo un colpo di rivoltella! La nobiltà ha i suoi obblighi, e tra questi c'è il matrimonio combinato. Ma il lavoro... no, meglio la morte. Nessuno potrà mai dire di avere il Conte Orsini sul libro paga! 
Ma tu, figlia mia, potresti finire per avermi sulla coscienza. Hai avuto un'educazione di prima classe. Sei cresciuta nei privilegi. E' tempo che tu faccia il tuo dovere>>
La Contessa Emilia approvò:
<<In fin dei conti, noblesse oblige>>
Diana scosse il capo con tutte le sue forze:
<<Mai! Avete capito? Mai e poi mai!>>
Ma il Conte e il futuro genero avevano già fissato le tappe che avrebbero dovuto condurre, in maniera inesorabile, al matrimonio più improbabile della storia.


Vite quasi parallele. Capitolo 3. Dagli Appennini alla Bassa

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Quando Enrico Monterovere e sua moglie Vittoria Bonaccorsi decisero di vendere il loro podere sull'Appennino modenese per trasferirsi da qualche parte nella Bassa pianura, il primo dei loro nove figli aveva già trent'anni e l'ultimo ne aveva solo due.
Il primogenito, Alfredo, che era una testa calda, oltre che uno scansafatiche, decise di emigrare in America e per un bel po' non si seppe più niente di lui.
Il resto della famiglia cambiò residenza più volte, passando da un affitto all'altro e da una città all'altra, a seconda del lavoro, sempre saltuario, svolto da Enrico e da qualcuno dei figli più grandi.
Ad essere sinceri, anche Enrico Monterovere non era quel che si direbbe un gran lavoratore e nessuno, nemmeno sua moglie, era in grado di dire con esattezza di cosa si occupasse, almeno fino al 1935, quando arrivò la Grande Svolta nella sua vita, la Chiamata dal Sinai, ossia l'assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, presso la ridente stazione di Bagnavallo.
Certo, per gente nata in montagna, trasferirsi nella Bassa ravennate era un po' come sprofondare nelle sabbie mobili, ma un posto nelle Ferrovie dello Stato valeva questo ed altro.
Restava comunque piuttosto nebulosa la natura dell'incarico di Enrico Monterovere presso la Stazione di Bagnacavallo.
Nessuno lo aveva mai visto con una divisa e una paletta rossa e verde in mano.
Qualche malalingua, però, insinuava di averlo scorto con secchi d'acqua, stracci e scopone.
Né la moglie, né i figli decisero di indagare ulteriormente. In fondo un salario alla fine del mese arrivava, e per quanto non fosse gran che, valeva pur sempre il detto: pecunia non olet.
Avevano trovato un appartamento in affitto a un prezzo fin troppo conveniente.
Certo, il piano terra era un po' umido, la muffa un po' troppo resistente, il seminterrato allagato e d'inverno si gelava, ma in fondo i Monterovere non erano forse stati temprati dai rigori degli inverni appenninici presso il bosco dell'Orma del Diavolo?
Questo era quanto Enrico ripeteva le rare volte in cui rincasava sobrio.
Le altre volte era meglio non rivolgergli parola.
In particolar modo era meglio non ipotizzare in sua presenza un qualche collegamento tra l'umidità della residenza e la tubercolosi di cui soffrivano tre dei suoi figli.
Come si è detto, Enrico e Vittoria ne avevano avuti nove, di cui sei maschi e tre femmine.
Alfredo, quello emigrato in America, si era fatto vivo dopo anni per lettera chiedendo un prestito.
La madre, che come spesso accade era l'unico vero "uomo" in famiglia, gli rispose che gli avrebbe fatto avere dei soldi soltanto se lui avesse fatto pervenire alla famiglia qualche medicinale utile per curare la tisi.
La signora Vittoria Monterovere, infatti, aveva sentito dire, alla radio, che gli Americani stavano sperimentando un nuovo farmaco, di cui ancora non era noto il nome, ma che in seguito sarebbe stato conosciuto come penicillina, la pioniera degli antibiotici.
Purtroppo, però, soltanto nel 1941 la penicillina incominciò ad essere utilizzata come antibiotico nella cura della tisi, troppo tardi per salvare Renata, Maria e Umberto Monterovere, persino se Alfredo, in quegli anni, si fosse anche solo vagamente preoccupato di far avere il farmaco ai fratelli.
I rimanenti figli, consapevoli che l'aria di Bagnacavallo non era esattamente quella del sanatorio di Davos in Svizzera, rimpiansero il Monte Cimone e l'Orma del Diavolo, maledissero Alfredo e l'America, e si misero alla ricerca di soluzioni alternative.
Romano, il secondogenito, si arruolò volontario nella Guerra d'Africa per la conquista dell'Abissinia, anche se il metodo di arruolamento risultò più che altro simile ad una retata di polizia con successiva deportazione al porto eritreo di Asmara.
Rimanevano ancora sul groppone dei vecchi Enrico e Vittoria altri quattro figli.
La terzogenita Anita, incredibilmente intelligente, brillante e vagamente simile a Marlene Dietrich, riuscì ad ottenere il diploma per l'insegnamento magistrale e poi, giovanissima, una cattedra a Pola, in Istria, dove si illuse di potersi costruire una vita al sicuro da ogni affanno e pericolo, in armonia con i vicini Jugoslavi.
Gli ultimi tre, che erano ancora adolescenti, si guadagnavano la pagnotta con lavori saltuari nelle numerose cave e torbiere della zona o nelle eterne opere di bonifica.
Uno di loro, che si chiamava Ferdinando come il nonno morto all'Orma del Diavolo, sviluppò un interesse straordinario per le cave e i canali, a tal punto da mettersi in proprio con un'attività destinata ad un inaspettato successo.
La signora Vittoria dirigeva la famiglia con salda autorità, tanto da riuscire persino a convincere sua sorella Valentina, sposata col ricco commerciante Filippo Bassi-Pallai, a investire denaro nell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Tutto sommato, dopo tanti anni di tribolazioni, il peggio sembrava essere passato, o almeno questa era l'impressione della famiglia Monterovere poco prima che, nel 1940, la radio annunciasse che un'ora fatale, segnata dal destino, batteva nei cieli della nostra Patria.
L'ora delle decisioni irrevocabili.