domenica 29 aprile 2018

Vite quasi parallele.Capitolo 115. Regnare all'Inferno o servire in Paradiso

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Qualcuno ha detto che la vita è ciò che accade mentre noi pensiamo ad altro.
In un certo senso era stato così anche per Riccardo Monterovere, che aveva sempre avuto la testa da un'altra parte, come la maggior parte di coloro che conducevano una vita da intellettuale.
La vita autentica, per Heidegger.  La vita contemplativa, per il Vangelo di Luca.
Era lo splendido passo evangelico di Marta e Maria.
Marta, che rappresenta la vita attiva, rimprovera la sorella Maria perché, invece di darle una mano nei lavori domestici, è rimasta ad ascoltare Gesù, il quale alla fine commenta:
<<Marta, tu ti affanni e t'inquieti per mille cose, ma una sola cosa è necessaria: Maria ha scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta">>
Era una risposta illuminante nella sua perfezione, come gran parte delle massime evangeliche, per esempio quella secondo cui "il domani ha già le sue inquietudini: ad ogni giorno basta la sua pena".
A tutto questo pensava Riccardo mentre a tarda sera varcava il portone del Castello di Monterovere, dopo essere sceso dal taxi che, da Modena, passando per Pavullo e Querciagrossa, lo aveva condotto fin lì.
Qualcosa di molto importante lo attendeva nell'antico maniero che era stato dei suoi antenati, ma in cui mai prima di allora aveva messo piede.
Ho sempre avuto la tendenza a rifiutare gli inviti. 
Non era per snobismo: era una questione di autodifesa, a volte persino di sopravvivenza.
Ma era anche un modo per tutelare gli altri dalle asprezze del suo carattere, dalla sua necessità di dire o fare cose imperdonabili, per poter voltare pagina ed andare avanti.
La sua unica arma era la parola e con quell'arma aveva allontanato dalla sua vita tutti coloro che, in un modo o nell'altro, lo facevano soffrire, impedendogli di procedere verso la ricerca di un equilibrio interiore.
Un po' si sentiva in colpa per questa sua capacità di troncare le relazioni di punto in bianco, perché questo voleva dire che, in fondo, sapeva di poterne fare a meno.
E gli altri, giustamente, ci rimanevano male. Si sentivano umiliati.
Solo chi lo conosceva meglio era in grado di capire che queste chiusure drastiche erano la conseguenza di una serie di "danni ingiusti" subiti nel passato.
Riccardo, come quasi tutte le persone "danneggiate", aveva acquisito un'insospettabile resilienza: "la capacità di assorbire un urto senza spezzarsi" e dunque anche di superare un trauma ed andare avanti, rendendosi conto di possedere una forza e un'adattabilità di cui prima non sospettava l'esistenza.
Questo pensiero portava con sé però un inquietante corollario:
Chi ha subito un grave danno è pericoloso. Sa di poter sopravvivere. 
Per questo finisce per far soffrire le persone, nel momento in cui queste ultime capiscono che lui può fare a meno di loro.
 E sa anche di aver diritto ad un risarcimento.
E questo può rendere spietati nei confronti di chi, invece, non avendo mai subito un danno ingiusto, appariva incapace di empatia.
Una volta Ilaria, riflettendo su tutto questo, aveva espresso un'efficace previsione:
<<Non puoi continuare a respingere tutti. Prima o poi ci sarà qualcuno a cui non potrai dire di no>>
E lo zio Lorenzo, il potente castellano di Monterovere, era quel qualcuno.
Era arrivata la "chiamata dal Sinai", e bisognava scalare il monte.

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Era tempo di riacquistare una coscienza del presente, dell' hic et nunc: concentrarsi sull'attimo, come un felino predatore.
E in effetti la sua indole era sempre stata simile a quella di un gatto.
Era capace di empatia e simpatia,  e conosceva bene le regole del gioco, ma non era mai stato "addomesticabile".
Non era né leader, né gregario, né ribelle, né emarginato: era libero, e nessuno mai era riuscito a possedere interamente le chiavi del suo cuore.
Aveva imparato a camminare sul crinale sottile tra la contemplazione e il desiderio, apprezzando i doni della quiete, senza disdegnare quelli della passione, una fiamma che era sempre rimasta accesa in lui, anche nei momenti più oscuri.
Non era un uomo di mondo, ma nemmeno un puro asceta.
Sapeva che c'è un tempo per tutte le cose, come dice la saggezza dell'Ecclesiaste, e questa era stata sempre la sua salvezza.
C'era il tempo per la serietà e quello per l'allegria, il tempo per la profondità e quello per la leggerezza, il tempo per il silenzio e quello per la parola.
Gli piaceva fin troppo parlare, raccontare (Goethe avrebbe parlato di Lust zu fabulieren) ma ancor di più gli piaceva scrivere, e narrare per iscritto, e naturalmente anche leggere, sia saggi che romanzi, preferendo questi ultimi, per quanto potessero sconvolgere le sue fragili certezze e mettere tutto in discussione. Sapeva infatti che, mentre il lettore giudica il libro che sta leggendo, anche il libro sta giudicando lui.
Dire che Riccardo fosse un cinico sarebbe stata un'esagerazione.
Non era una persona cattiva, tutt'altro: era una persona buona a cui erano capitate cose molto cattive e questo lo faceva stare sempre sulla difensiva.
Il suo era più che altro un giustificato disincanto, che non aveva nulla a che vedere con i piagnistei degli apocalittici o l'acidità dei frustrati: si trattava più che altro di uno scetticismo nei confronti della velleitaria ingenuità degli utopisti o dell'intransigenza ottusa dei fanatici.
A chi gli chiedeva come si sentisse, rispondeva con una celebre battuta di Ennio Flaiano quando, interrogato sull'eterna crisi italiana, commentava:
"La situazione è grave, ma non è seria".
E a chi gli chiedeva il significato della frase, rispondeva con una domanda retorica:
"Vi sembra forse di vedere serietà, in giro?"
Oppure, ad ogni compleanno di un amico, scriveva, con ghigno sornione:
"Coraggio, il meglio è passato".
Evitava però di andarci giù troppo pesante, ricordando l'ammonimento di Arturo Graf: "Badate, volendo estirpare un'illusione, di non uccidere un'anima".
Ogni tanto si chiedeva se esistevano veramente persone soddisfatte.
Una volta Ilaria gli aveva detto:
<<Tu sei spesso molto allegro, ma non mi sembri mai felice>>
Riccardo aveva risposto in maniera piuttosto brutale:
<<Felice? E cos'è la felicità? Le anatre del laghetto sono felici, forse, se riescono a evitare i cacciatori e a non finire arrosto... 
Solo pochissimi fortunati possono illudersi di essere felici, e tra questi fortunati ci metto anche chi, nella sua incoscienza o dimenticanza, non si rende conto del dolore che lo circonda. 
In conclusione: la felicità è il premio di consolazione degli idioti>>
Molti si offendevano quando lui faceva questa osservazione.
Eppure bastava riflettere su un fatto: una persona felice, guardandosi in un ipotetico specchio delle brame, avrebbe visto solo se stessa.
Ma chi non desidererebbe cambiare qualcosa si sé, se ne avesse il potere?
Sulla base di questa considerazione, forse nessuno era felice, nemmeno chi credeva di esserlo.
Forse ognuno, persino il più sicuro di sé, doveva tenere a bada frustrazioni inconfessabili.
Ed io? Cosa devo tenere a bada?
Molti "Monteroveriani" della Confranternita professavano idee buoniste, ma nascondevano nel loro intimo una competitività estremamente aggressiva, perfettamente in sintonia con il mondo turboliberista globalizzato in cui non esistevano bene e male, ma soltanto denaro e potere.
In ogni caso, distinguere il bene dal male non era facile e a volte era del tutto impossibile, tanto i due principi si compenetravano, come lo yin e lo yang nel simbolo del Tao.
Come aveva scritto Ursula Le Guin: la Luce è la Mano Sinistra delle Tenebre.

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E a metà strada c'era l'Ombra.
I veri potenti sono quelli che agiscono nell'ombra..
Ma c'era uno stratagemma che a volte poteva risultare utile.
Per capire dove sta il potere basta sapere di chi non puoi parlare male senza subire pesanti conseguenze
Suo zio Lorenzo sembrava uno di loro, tanto che una volta gli aveva detto che ammirava i grandi uomini, anche i "grandi nel male", perché:
<<Hanno comunque fatto grandi cose. Terribili, certo, ma grandi!>>
E la grandezza meritava comunque l'attenzione del Professor Monterovere.
Mi sta offrendo il potere, ma io rifiuterò, perché nonostante le mie buone intenzioni, finirei per farne un cattivo uso.
Ma se avesse rifiutato ciò che lo zio gli offriva, avrebbe perduto l'appoggio dell'ultimo parente in grado di evitare la catastrofe di ciò che rimaneva della sua famiglia.
Ho veramente fallito?
Giunto ormai "nel mezzo del cammin di nostra vita", aveva siglato col mondo, (e con la propria coscienza) una specie di tregua,
Non era stato facile. Ogni rinuncia aveva i suoi costi.
La libertà, per esempio, ha come prezzo la solitudine. Alcuni non sono disposti a pagare questo prezzo, ma se si è tristi quando si è soli, vuol dire che si è in cattiva compagnia.
Sartre aveva ragione, sia su questo punto, sia riguardo alla natura dell'Inferno.
L'Inferno "sono" gli altri.
Riccardo aveva fatto propria questa frase ancor prima di sapere che l'aveva già scritta il filosofo esistenzialista francese, persona molto diversa da lui, peraltro.
Ma l'Inferno, ah, questo sì che ho avuto tempo per conoscerlo... 
E non erano stati solo gli eventi in sé, a provocarlo.
Ciò che ci fa soffrire di più è l'incomprensione da parte degli altri, persino di quelli che ci vogliono sinceramente aiutare. Pensano che basti una passeggiata o un giro in bicicletta per cambiare le cose. Questi pensieri sono "inferno" allo stato puro somministrato a chi soffre sempre, perché il dolore ce lo portiamo dietro. 
Tenetela per voi la vostra maledetta passeggiata!
Certo, avevano buone intenzioni, come quelli che credono che vivere sia preferibile, a prescindere, dal non vivere, e non sanno quanto stia soffrendo la persona che loro costringono a vivere.
Questo è il vero inferno, non quello che c'è dopo la morte, qualunque cosa ci sia, non può essere peggio di questo incubo. Quando tocchi il fondo, l'idea che la fine sia prossima è un sollievo, ma il pensiero di dover andare avanti in quelle condizioni... gli altri non capiscono, perché non sono nei tuoi panni. Per questo dovrebbero farci più paura quelli che ci costringono a vivere, pur sapendo che siamo condannati alla sofferenza, rispetto a quelli che, proprio per aver capito la nostra condizione, accettano l'idea di lasciarci andare.
A differenza di suo zio, Riccardo aveva sempre preferito la solitudine, ragione per cui il mondo intero lo aveva spesso frainteso e rimproverato.
Bollato come "individuo asociale e misantropo".
A un colloquio di lavoro gli avevano chiesto se venivano prima i bisogni dell'individuo o quelli della società. Era un modo per capire fino a che punto era disposto a sacrificare se stesso per il bene dell'azienda. Incurante delle conseguenze, aveva risposto:
<<Su questo punto cambio idea almeno due volte al giorno. Ad essere sinceri, mi capita spesso di avere idee che non condivido>>
Era una vecchia battuta di Woody Allen, ma nessuno pareva essersene accorto: la faccia degli intervistatori sarebbe stata da fotografare e incorniciare.
Un'altra volta, sempre a quegli odiosi test psico-attitudinali, gli avevano domandato:
<<Meglio regnare all’Inferno o servire in Paradiso?>>
Al che Riccardo aveva risposto:
<<Regnare all'Inferno, perché almeno so che esiste, anche se noi preferiamo chiamarlo pianeta Terra>>
L'espressione di lesa maestà che si era dipinta nei loro volti non aveva prezzo.
Ovviamente nessuna di quelle aziende l'aveva assunto.
Avere sempre la battuta pronta può rivelarsi pericoloso, come dimostra la fine di Oscar Wilde, che subì il carcere non tanto per i suoi costumi sessuali, quanto piuttosto per aver ridicolizzato la tarda società vittoriana, su cui ancora incombeva il busto di marmo della buonanima di Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, che aveva portato con sé, dalla fitta selva di Turingia, l'ascetico spiritualismo dei Rosacroce e le cupe atmosfere neogotiche degne dei capolavori di C.D. Friedrich.
Per ossequiare l'adorato e austero consorte, la regina Vittoria, ultima della godereccia casata degli Hannover, aveva abbandonato con un certo rimpianto le frivolezze neoclassiche della sua adolescenza e imposto al paese un puritanesimo di facciata, vagamente sado-maso, basato sul principio: "vizi privati e pubbliche virtù".
Wilde aveva messo in discussione quel principio: per questo la real vedova, che pure a Balmoral se l'era spassata prima con il rude Mr.Brown e poi persino col valletto indiano, gliel'aveva fatta pagare.
E allora bisogna cercare di essere prudenti, stabilire un livello sotto il quale non si vuole scendere... sotto il quale c'è solo da ripetere a se stessi che bisogna volersi un po' più di bene.
Quel tipo di saggezza non è una conquista facile, né mai del tutto definitiva, ma rappresenta di sicuro una forma mentis che aiuta a vedere le cose in una prospettiva meno angosciosa.
E questa, secondo Riccardo, era un'attitudine di non poco conto per un uomo costretto a vivere in un contesto dove le sue doti non erano considerate particolarmente utili.
Queste doti erano considerate da molti come dei vezzi, delle fragilità, perché ai più mancava una visione d'insieme.
Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e la chiamiamo mondo. 
Il problema era selezionare la sabbia giusta, le percezioni più favorevoli.
E se non c'era niente di favorevole?
Una ragione di vita rimaneva comunque: Riccardo, per esempio, voleva sopravvivere almeno a un certo numero di persone a lui sgradite o semplicemente troppo longeve, e questo, in assenza di dolori atroci, poteva essere sufficiente.
Una ragione per rimanere saldo e fermo.
Aver coraggio è anche riuscire a star fermi dinanzi al pericolo.
E lui amava stare fermo.
"Chi si muove cammina; ma chi è prode il campo tien!"
Nel frattempo si teneva però aggiornato su tutto. Osservava con la massima attenzione. Ponderava ogni notizia. Raccoglieva dati, pareri, riflessioni, analisi.
E serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
Certo non era una vita facile.
Le persone a cui voleva sopravvivere sembravano eterne.
Ecco, Riccardo aveva, nella sua lista in stile Arya Stark, un certo numero di persone, ai cui funerali avrebbe partecipato con la stessa aria trionfante sfoggiata dalla Regina Madre inglese, Elizabeth Bowes-Lyon, ai funerali di Wallis Simpson.

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Solo a lista esaurita Riccardo avrebbe considerato compiuta la sua missione terrena e si sarebbe potuto congedare dalla vita da pari a pari.
Ma fino ad allora, più che vita, la sua sarebbe stata una sopravvivenza, un tirare a campare.
Ma almeno lui poteva leggere, guardare dei film, meditare, e i giorni passavano veloci.
Anche queste sue scelte erano state interpretate, da alcuni membri della confraternita dei Monteroveriani, come un atteggiamento calcolato, una strategia di marketing, perché il vivere appartati, il negarsi agli altri, alimenta il mistero e quindi anche il carisma.
E ormai il suo appartamento era off limitsne aveva fatto la sua tana, come se fosse una specie di caverna hobbit, cosa di cui era perfettamente consapevole.
A soli dieci anni aveva già letto tutti i romanzi di Tolkien, e senza dubbio al professore di Oxford andava il merito, e forse anche la colpa, di avergli fatto amare la lettura più della vita stessa.
In particolare la lettura di romanzi fantasy oppure di genere fantastico, che contenessero cioè almeno un piccolo elemento di sovrannaturale, o per lo meno di mistero.
La letteratura, in fondo, è l'ammissione che la vita, da sola, non basta.